Nino Pellacani e il basket “Anni eccezionali. Appena arrivato in città nel 1983 andai in via Paolo Fabbri 43, dove abitava Guccini“
Pubblicato il 28 giugno 2020, di Alessandro Gallo RdC
“Appena arrivato a Bologna, mi sono tolto una soddisfazione”. Nino Pellacani, modenese, nato il 21 aprile 1962, ricorda il suo impatto con le Due Torri. “Sono andato in pellegrinaggio in via Paolo Fabbri 43. Non ho avuto il coraggio di suonare alla porta di Francesco Guccini, però ho voluto capire dove abitava. E il titolo che aveva dato a un suo lp”.
Uno dei protagonisti degli anni Ottanta Fortitudo, al quale, la Fossa dei Leoni, dedicò un coro particolare, legato alla capacità di volare letteralmente a canestro: “Nino, magico guerriero, salta su nel cielo, schiaccia per gli ultrà”.
Icona Fortitudo anche se, prima di sbarcare nella città dei Canestri, Nino non conosceva benissimo i due volti del derby.
“Giocavo a Reggio Emilia – ricorda – e frequentavo già l’Accademia di Belle Arti. A Reggio arrivò come allenatore Dado Lombardi e la società si era già messa d’accordo per cedermi a Perugia. Germano Gambini, però, che era presidente della Fortitudo, mi aveva visto in un torneo. Mi parlò. Così mi misi di traverso. E, facendo arrabbiare Reggio, scelsi l’Aquila”.
Scelse anche Bologna, una metropoli rispetto ai primi passi a Modena. “Era molto chiuso, ombroso, permaloso – spiega Nino – essere così alti, a Modena, era quasi un’aggravante. Bologna mi aiutò ad aprirmi”.
L’Accademia di Belle Arti e una scuola serale di fumetto. Fino a quando non fu “traviato” da un compagno più giovane, Giacomo Zatti, che gli mostrò le bellezze della città.
“Era tutto molto gioioso – sottolinea –, ricordo le stagioni con Massimo Iacopini. Lo sport e la pallacanestro mi hanno regalato amicizie che durano tuttora”.
La soddisfazione più grande, non tanto da cestista, quanto da tifoso, il titolo del 2000. “Era il coronamento di un sogno”.
Gli viene in mente anche una maglietta, una delle poche non firmate dalla sua verve e dalla sua goliardia.
“C’era scritto, in dialetto, stufi di vincere. Per me, dopo il primo scudetto, fu assolutamente geniale”.
Tante stagioni in una Fortitudo che alternava promozioni a retrocessioni con grande continuità.
“Ma la città era splendida – insiste – e la Fortitudo ci permetteva di giocare senza pressione, con grande leggerezza. Era un momento di divertimento. Per noi che giocavamo e per chi ci veniva a vedere”.
Tante soddisfazioni, persino uno scudetto, da giocatore, con la maglia di Treviso. Ma Nino, originale e controcorrente, non ha mai nascosto quale fosse la gioia maggiore.
“Lo scudetto è stato importante. E sono stato fortunato a vincerlo. Però per tre volte, sono stato campione al Playground. Per me i Giardini Margherita restano un luogo e un torneo unici”.
Resta da capire, in materia di Playground, chi sia il re indiscusso della manifestazione. Certo, le nuove leve chiedono spazio, ma i nostalgici degli anni Ottanta e Novanta non possono che fare due nomi: Nino Pellacani e Giacomo Zatti.
“No – se la ride Nino – il numero uno resta Jack. Ci tiene tantissimo”.
In campo, ai Giardini, con uno degli adulti di riferimento.
“In panchina avevamo Concetto Pozzati, un artista, un docente che a lezione dava del lei a tutti. Poi, in estate, si metteva in discussione. E si divertiva con tutti noi”.
Nella Spoon River personale di Nino, Pozzati ha un ruolo speciale. “Come Germano Gambini, che non solo mi aveva portato a Bologna, ma aveva un modo di fare molto paterno. E come Dido Guerrieri, il professore, che a Torino ci faceva giocare con pochi schemi”.
C’è un quarto personaggio, legato a doppio filo a Nino e alla Fortitudo. “Penso a Enzo Lefebre – dice –. Sono stato per sette anni art director della Fortitudo. E, uno dei primi lavori che mi commissionò Enzo, fu una doppia pagina che pubblicizzasse il sito internet dell’Aquila. Era il 1999 e molti club non avevano nulla. Lui guardava lontano, aveva già intuito e visto il futuro”.